La mostra

La luce, la pittura, la visione

Nessuno può estraniarsi dalla propria origine e alienare da sé la natura e la cultura della propria terra ma l’artista, nell’affermare i suoi strumenti espressivi e nella maturità della sua consapevolezza, realizza diverse tappe di quella che potrebbe definirsi come una specie di rotta di avvicinamento verso la méta espressiva più alta e più completa. Così è per Giuseppe Modica e dalle opere degli anni Ottanta in cui i soggetti della pittura come sedimentazione architettonica o paesaggi-fortezza, oppure le strutture sul Mediterraneo mettono in evidenza una luce meditata, sognata, frutto di un pensiero insistente ma ancora un poco fuggente e reso con una mestica non ancora corposa come quella delle terrazze, delle saline, delle finestre, dei templi, delle stanze-atelier (con natura morta o vanitas) degli anni Novanta, quando si compie quel processo di avvicinamento e di cattura di una luce più sostanziale alla forma della pittura, pittura tanto costruita da diventare un’espressione sempre più totale e magica.
“… I colori pigliano variazione dai lumi, poi che ogni colore posto in ombra pare non quello che è nel chiarore. Fa l’ombre il colore fusco, e il lume fa il chiaro ove percuote… Adunque tengono gran parentado i colori coi lumi a farsi vedere, e quanto sia grande vedilo, che mancando il lume mancano i colori, e ritornando il lume tornano i colori” (L.B. Alberti, 1436). …
L’artista dedica uno sguardo indulgente e affettuoso al disfacimento e all’abbandono testimoniato dalle belle architetture; la presenza umana manca da tempo e allora l’attenzione si concentra sulle antiche ceramiche sconnesse del pavimento… L’architettura di Modica evoca la grandezza della storia passata e la sua bellezza corrotta dal tempo, ma non finita, non spenta: infatti qualche limone o una tavola con la tovaglia, perfino un autoritratto dell’artista in controluce mantiene vivo quel rapporto. L’indugiare dentro le stanze dimenticate, rifugio ancestrale, luogo magico del riposo all’incessante affanno della vita contemporanea, ci riporta ad un altro aspetto della personalità dell’artista che riguarda la sua cultura: la storia, l’arte, i capolavori dell’isola natale con i palazzi e le chiese, lo splendore del barocco, i mosaici, Antonello da Messina… Così si realizza, nel ritorno alla luce specchiante della Sicilia, quel passaggio dal concettuale al naturale che raggiunge risultati sempre più alti e raffinati come nel trittico Visione ritmica (Roma), 2005-2006 o, appunto, con la complicità della storia dell’arte, nell’immobile e metafisico L’atelier di Antonello, 2007.

Negli ultimi decenni del 1900 alcuni artisti che si potrebbero definire “di avanguardia”, irregolari, per non essersi mai adeguati alle mode e ai conformismi imperanti, hanno coltivato la loro scelta di campo verso la pittura di ambito figurativo accogliendo una loro innata propensione per una realtà visionaria che va ben oltre il semplice rapporto con il dato del vero. Da Hopper e Wyeth a Lucien Freud, da Antonio López Garcia a Balthus non sono mancati gli esempi internazionali di un totale e orgoglioso isolamento, del tutto insensibile al glamour e alle scosse telluriche dettate da fattori collaterali, seppure molto sostanziali, come le mode, amplificate dai mezzi di comunicazione, e un certo mercato dell’arte diventato, nella crisi mondiale dell’economia, uno dei riferimenti cardine della finanza e degli investimenti nell’arte, stimata anche come un bene di rifugio.
In Italia, dove è nata la Metafisica e dove “l’incertezza dell’ora” è giustamente di casa, possiamo riconoscere, seppure con una semplificazione un po’ estrema, nei due poli Giorgio de Chirico – Alberto Savinio la nascita di una nuova sensibilità che ha attraversato tutto il secolo e ha assunto diversi aspetti, sempre molto còlti. Il polo de Chirico ha rappresentato il faro di una ricerca la quale, partendo dal dato del vero enigmatico e visionario, si è inoltrata nella riflessione più estrema, dalla metafisica alla surrealismo, fino al recupero, negli anni Trenta, di una realtà classica, quella bucolica della natura cantata dagli ideali del Seicento, e poi ancora oltre, sperimentando lo straniamento della metafisica rinnovata dei bagni misteriosi. Il polo Savinio, tra letteratura e musica individua presto la propria mèta restando costantemente al di là della realtà. …
Il lavoro di Giuseppe Modica, guardato e apprezzato da uno scrittore come Sciascia e da un grande pittore come Piero Guccione, si colloca in un contesto di giovani maestri con una ben definita personalità, autori di una scelta di campo fortemente motivata. Essi si sono posti il problema di non essere allineati alle mode imperanti, ma appunto di restare “davanti”, come quei grandi solitari sopra citati, con la percezione ben ricettiva sulla cultura contemporanea e allo stesso tempo coltivando una pittura rispettosa dei suoi riti.
Modica costruisce i suoi dipinti giorno per giorno con sapiente conoscenza dei mezzi; egli esprime una scelta singolare che dà forza al suo talento molto speciale per l’impostazione dello spazio. Egli è uno “scenografo” accorto, capace di inquadrare l’evento e anche di scatenare la fantasia dell’osservatore con il gioco del “dentro e fuori”, dei vetri che riflettono l’interno della stanza, mostrando allo stesso tempo l’esterno del “paesaggio-città”, come nell’opera Intravedere Roma oppure in Fiat lux, del 2005. Oppure, dall’interno della stanza, vuole rappresentare l’esterno notturno appena percettibile sui vetri frontali della finestra chiusa in Luce della notte (inseguire la pittura), 2000, o nella Grande finestra orizzontale-notturno, 2003. …
Nel rincorrersi delle immagini riflesse, dei complessi monumentali nel buio della notte come fantasmi, così come all’interno di un vuoto atelier-sala di posa con macchina fotografica e scala cromatica, Modica è fedele alla sua ricerca, indipendente eppure partecipe dell’ambito ristretto di quegli artisti che si pongono il problema del vero e della sua riproducibilità. …

La realtà, si sa, non è solo “quello che vediamo”. Per Antonio López Garcia la realtà può riassumersi in almeno tre istanze: “quello che vedo, quello che sento, quello che sono”. In questa definizione, illuminante, si concentra tutta la precarietà e la limitazione dell’atto di vedere da parte dell’artista, perchè l’osservazione della realtà, assolutamente necessaria per conoscere il mondo, è solo un mezzo per allineare il contatto tra l’artista e la natura circostante. Per la pittura questo è dunque l’atto di partenza, non di arrivo all’opera d’arte.
Come affermava Balthus “…Senza visione, non c’è opera. C’è unicamente un’illustrazione o una decorazione… La pittura è un linguaggio. Parte da una visione e la trasfigura in un linguaggio che appartiene a lei soltanto… Nella pittura c’è la parte della visione e la parte dell’osservazione. Alla fine queste devono essere indissolubilmente mescolate”…
Possiamo registrare, a secoli di distanza, che il fascino dello spazio di Giotto e di Piero è ancora sentito da qualche erede di quei pittori grandi e solitari sopra citati, de Chirico compreso. Essi non sono molto numerosi ma sono attivi e sicuri della propria scelta; talvolta hanno degli allievi e li istruiscono semplicemente circa l’atto di guardare, che non è affatto facile o scontato.
Per Balthus l’atto di guardare fornisce stimolo e carburante all’immaginazione (“E’ lo sguardo che la feconda”). L’atto di guardare di Modica, con gli occhi della memoria di una lunga e importante tradizione culturale, genera una pittura evocativa, illuminante, atemporale, perfettamente inserita nell’ambito di una visionarietà che non necessita mai di risposte definitive.

Laura Gavioli
(estratto dal testo di presentazione)