“Il rapporto SVIMEZ sulla finanza dei Comuni, accanto alla riflessione riguardante la situazione più generale delle Amministrazioni nel nostro Paese, consente di poter sviluppare analisi e valutazioni più specifiche sullo stato degli Enti Locali nel nostro Mezzogiorno.Appare evidente quanto in Italia siamo ben lontani da ogni forma di federalismo e di reale autonomia dei territori.”
Così il Sindaco di Potenza, Vito Santarsiero per il quale “i principi innovatori del Titolo V della Costituzione, pur avendo trovato nel dettato della Legge 42/09 un significativo momento di indirizzo normativo, risultano del tutto inattuati ed i Comuni vivono la peggiore stagione amministrativa del dopoguerra.Il calo di entrate correnti (-5,6% in 20 anni) e di spesa del personale (-27,9% in 20 anni) a fronte di una crescita del PIL del 18,5% sono lì a testimoniare come il comparto dei Comuni sia quello che più di tutti ha abbattuto e razionalizzato la spesa ordinaria sino a non produrre più deficit da 3 anni.
E bene fa il Prof. Pica ad evidenziare che il sistema di indebitamento dei Comuni è tutto gravato per norma sulla spesa corrente, con una forte responsabilizzazione gestionale delle Amministrazioni, cosa che al contrario non succede per lo Stato che invece può alimentare il debito per pagare il debito storico che inevitabilmente finisce col crescere sempre di più.
Basterebbe una banale applicazione di tali procedure per i livelli di gestione centrale della finanza pubblica per vedere avviato un reale processo di razionalizzazione della spesa e abbattimento del debito statale.
Non è un caso che su 1900 MLD € di debito pubblico i Comuni gravano solo per 50 MLD€, cioè oltre il 50% in meno del proprio peso in termini di spesa rispetto agli altri comparti.
Il rapporto fa altresì giustizia del falso incremento di entrate tributarie.
Negli ultimi anni – continua- è cambiato il modo attraverso il quale vengono accreditati ai Comuni i trasferimenti diretti dello Stato, e si è fatta gravare la spesa storica su IRPEF, o IVA o altro, determinando una situazione per cui è semplicemente cambiato il modo di chiamare il trasferimento storico e nulla c’è di reale autonomia tributaria.
Chiara la sottolineatura inoltre dei gravi danni causati ai Comuni da vari strumenti, dal Patto di Stabilità alla Tesoreria Unica, alla esigenza di ricorrere sempre più ad anticipazioni di cassa (+81% tra il 1991 e il 2000), come è chiaro che l’IMU diventa per il 50% una vera patrimoniale secca dello Stato e per l’altro 50% l’ennesimo modo di fare cassa per il trasferimento storico, lasciando all’autonomia impositiva dei Comuni la sola parte di duro incremento dell’imposta a danno dei territori.
E’ così che i Comuni non solo si trovano in grandi difficoltà per garantire i servizi essenziali ma hanno anche, nel contempo, ridotto di ben il 21% i propri investimenti negli ultimi 20 anni con grave danno per l’economia dei territori.
Il quadro che ne emerge è evidente: mentre l’Europa con i propri programmi guarda sempre più alle aree urbane quali poli da rafforzare per lo sviluppo dei territori vasti, l’Italia marginalizza sempre più gli Enti Locali e le aree urbane rinnegando il proprio DNA di Nazione che ha sempre creduto nei territori e nello sviluppo locale.
L’ultima stagione di vero decentramento, quella degli anni ’90 e inizio 2000, partita con la L. 142/90, culminata con la modifica del Titolo V e accompagnata da strumenti veri messi a disposizione dei territori quali la programmazione negoziata, – aggiunge Santarsierio- è stata anche l’ultima stagione di vera crescita del Paese e di vera crescita del Mezzogiorno, con ritmi che nel 1999, 2000, 2001 sono stati anche nell’ordine del +3% all’anno del PIL.
Quando l’Italia ha creduto nei Comuni il Paese è cresciuto ed il Sud, forte del proprio protagonismo, è addirittura cresciuto a ritmi superiori a quelli del resto del Paese.
In merito al Sud il rapporto fa chiarezza anche sullo stato dei Comuni del Mezzogiorno.
Occorre leggere i dati globali per ben comprenderlo.
I Comuni del Mezzogiorno hanno avuto un gettito di entrate correnti negli ultimi 20 anni mediamente inferiori del 20% rispetto al resto del Paese.
Nel 2011 le entrate correnti pro capite sono state pari a 755 € contro i 945 € pro capite del Centro Nord; ciò significa minori entrate correnti pari a 19,5 MLN€ ogni 100.000 abitanti.
Trattasi di un dato forte che sottolinea l’importanza della definizione dei fabbisogni e dei costi standard previsti dalla legge sul Federalismo, nonché l’importanza del fondo perequativo che non potrà che essere di tipo verticale e di competenza dello Stato per favorire il riequilibrio a favore dei territori a minore gettito fiscale e non già orizzontale e di competenza del sistema dei Comuni.
Come pure penalizza molto il Sud il mancato avvio della perequazione infrastrutturale mirabilmente prevista dall’art. 32 della Legge 42/09.
Significativo in merito il dato degli investimenti in conto capitale che, nel periodo 2004 – 2009, nel Sud è stato pari a 251 € pro capite comprensivo dei fondi UE contro i 300 € pro capite del resto dell’Italia.
Tale dato è drammatico, espressione più vera dell’abbandono del Sud, soprattutto se si tiene conto che i fondi nazionali ordinari per il Sud dovrebbero essere superiori del 7% alla media nazionale secondo un vecchio piano di rilancio del Mezzogiorno e ad essi dovrebbero sommarsi i fondi europei.
Questo dato esprime in maniera chiarissima l’effetto dello scippo avvenuto negli anni scorsi di 60 MLD€ di fondi FAS, destinati invece ad altre parti del Paese, e della mancanza di politiche per il Mezzogiorno.
I fondi europei sono inevitabilmente diventati sostitutivi di quelli nazionali abbassando così di almeno un ordine di grandezza la loro efficacia e la qualità strategica delle opere finanziate.
C’è dunque un problema Sud che emerge con grande chiarezza.
Aggredito dalla criminalità, con investimenti esteri praticamente nulli, con le città in grave ritardo nei processi di riqualificazione, con il turismo e l’agricoltura marginali, con il sistema bancario crollato, senza ricerca ed innovazione, con una terziarizzazione patologica ed una pubblica amministrazione inadeguata, il Sud oggi è, con la Grecia e la Turchia, la macroarea europea maggiormente in crisi.
Il fallimento dell’intervento straordinario del Mezzogiorno ha avuto effetti gravissimi, non solo il Sud non è cresciuto e non si è dotato delle infrastrutture necessarie a qualsiasi processo di crescita, ma è successo che da area da sostenere è via via diventato luogo dell’assistenza e della dipendenza economica e politica, fino ad esser percepito come palla al piede per lo sviluppo del Paese.
Con una sbagliata lettura storica ed economica, sempre meno il Sud è sentito come problema nazionale e sempre più problema dei Meridionali.
Sarebbe facile dimostrare come l’intervento straordinario del Mezzogiorno ha sì favorito ingenti finanziamenti alle Regioni meridionali ma il tutto è avvenuto non già per sostenere un modello di sviluppo tarato sulle esigenze e potenzialità del Sud bensì per sostenere un modello di sviluppo centrato sulle esigenze della grande industria del Nord.
Il Sud – dice Santarsiero- deve oggi rivendicare una storia più equilibrata e chiedere di far emergere nel Sud la presenza dei vari Sud, quelli delle capacità e dell’eccellenza, non già per un fatto statistico di immagine ma per far comprendere che il Sud non è tutto omogeneo e far emergere dai territori politiche e strumenti per sviluppo endogeno e fare quindi oggi quello che ieri non ha fatto l’intervento straordinario. Abbiamo bisogno di una strategia ampia, che tenga conto delle carenze del Sud e della sua condizione di marginalità geopolitica e geoeconomica.
E’ necessaria cioè – conclude- una strategia capace di coniugare lo sviluppo locale sia con un programma di infrastrutturazione sovra regionale sia con una naturale proiezione mediterranea dei processi complessivi di crescita offrendo così l’opportunità di operare su orizzonti economici e territoriali più vasti sia all’Italia che all’Europa.”